Saper leggere i segni "olimpici" dei tempi
Tante e da parte di tanti sono state le riflessioni di questi giorni in merito alle Olimpiadi, ai successi degli atleti azzurri, ai flop di quelle che fino a ieri erano sicurezze assolute del team azzurro. Molte serie e approfondite, moltissime altre flatus voci...
Molto poi avevano lasciato pensare gli atteggiamenti dissennati di atleti che hanno addirittura rinunciato ai giochi pur di non gareggiare contro atleti israeliani, rinnegando nel profondo il vero spirito olimpico, molto ancora hanno fatto pensare a quanto piccoli si possa essere le squallide insinuazioni di commentatori e stampa inglesi e americani in merito ai successi di nostri atleti, soprattutto quando questi si sono imposti su atleti britannici, quasi a confermare che la sconfitta agli europei di calcio brucia ancora e brucia tanto.
Abbiamo apprezzato molto una lettura teologica che dei "segni olimpici" ha fatto il professore e teologo Giuseppe Lorizio sulle pagine di Avvenire, che qui riproponiamo:
«In verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni...» (Gv, 6, 26). Abbiamo ascoltato questa parola domenica scorsa prima, durante o dopo due 'segni' che abbiamo ricevuto dalla nostra storia-cronaca e per i quali ci siamo emozionati. Comprenderli significa non fermarsi all'apparenza e alla labilità emozionale, ma cercare di andare in profondità. Cosa vuole dirci la storia e il nostro Dio, che è il Dio della storia, attraverso questi eventi che potrebbero sembrare banali, ma tali non sono? Cerco di raccogliere tre riflessioni a partire dalle vicende olimpiche dei ragazzi italiani e dall'emozione di vedere sventolare il tricolore e risuonare l'inno sullo stadio di Tokio per due finali, che, a detta di tutti, costituiscono il clou dei giochi olimpici: quella del salto in alto e quella dei 100 metri.
Verticale e orizzontale: sono queste le coordinate del nostro impegno. E, in quella verticale spicca l'aver portato il segno della passione (il tutore di gesso di precedenti incidenti) a significare il fatto che ci si erge (innalza = risorge) con i segni della passione, ovvero della sofferenza, della fatica e dell'impegno, che preludono il traguardo. Fuori di metafora: se ciascuno di noi percepisse il messaggio che deriva dalle scelte e dal successo di Gianmarco Tamberi e di Marcell Jacobs, si vedrebbe coinvolto in un impegno spasmodico e determinato nel cercare di salire-saltare e di correre coi piedi per terra, mentre abita i propri contesti, culturali, sociali, politici ed ecclesiali. Non è l'esempio il paradigma di questa rappresentazione, che interpella giovani, adulti e anziani, ma il coinvolgimento e il sentirsi appunto 'rappresentati' da chi viene celebrato per le sue vittorie olimpioniche e sportive. «Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l'aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato » (1Cor 9, 24-27). E lo stesso potremmo dire circa il fatto che «tutti saltano nello stesso stadio», ma questa volta dopo il salto non è stato uno solo a ricevere l'oro, ma 'due', perché, come hanno detto Tamberi e il suo amico-avversario Mutaz Essa Barshim gli atleti: «Due è meglio di uno!».
La seconda riflessione riguarda gli affetti e le emozioni coinvolte in questi momenti. Rivolgendosi ai suoi cari il vincitore dei 100 metri ha detto: «Vi ho sentito, siete stati il mio supporto». Al di là delle cronache mi sembra fondamentale il rapporto fra sentire e supportare. Chi non riesce a sentire non sarà nemmeno supportato, quindi bisogna 'sentire', ovvero essere coinvolti in esperienze di amore autentico, per essere sostenuti come nel sudato lavoro della vita, di un uomo, che abbiamo visto allenarsi rincorrendo una macchina. E anche questa è una metafora del nostro tempo. Alle Olimpiadi ha vinto l'uomo e ciò dovrà accadere anche nella nostra società, perché non sia la velocità delle macchine a sopraffarci.
Infine, da più parti sono stati sottolineati la necessità e il ruolo del mental coach e non solo perché, come direbbero le neuroscienze, tutto nasce dal cervello, ma soprattutto perché è il pensiero a governare la persona in tutte le sue espressioni, anche fisiche e ginnastiche. La 'cura del pensiero' dovrà dunque costituire un compito fondamentale del nostro essere nella storia di questo mondo, che amiamo e che desideriamo migliore.
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