Mariangela Calabrese. L'acqua corpo dell'anima
di Rocco Zani
Un astuccio di pietra levigata da biacca raggiante. Un segmento dell'anima che prende forma per geometria ferma, finanche inflazionata, eppure carica, come avrebbe detto Gillo Dorfles, di "intenzionalità estetica". Un oggetto di contenuta dimensione quello che ridefinisce Mariangela Calabrese, capace comunque di fissare – e trascrivere – un dialogo millenario ed epico, quello tra la terra e il mare che è – d'incanto – storia di avversità e accoglienza, luogo di fermento e di ricorrenti contagi. Al pari di una storia probabilmente meno contenuta e che vede protagonista l'uomo, le insidie, i flussi, le miserie e il pregio dell'ascolto.
Linea di confine ricurva che penetra i sedimenti e ne ragguaglia il tempo: quello dell'argilla, della sabbia, del sale, della roccia, figlia rassicurata del vulcano. E si fa testimone di tracce, delle voci da luminaria o di quelle strozzate nella tempesta. L'acqua è corpo dell'anima, finanche lingua. Perché ne accoglie l'immaginaria condiscendenza; una "geografia" della invisibilità che rimanda comunque alle fattezze dell'assenza, del notturno, della rievocazione. L'acqua è territorio dell'anima – delle anime – perché affollata di grida sotterranee, di occhi stralunati e misericordiosi, di brandelli menzogneri, di rotte impaurite e inattendibili.
Il mondo di sotto. O di sopra. Perché la parabola di blu e di lapislazzuli inattesi si fa – d'un tratto – piattaforma di cielo o scorribanda di fiume, talvolta fierezza (e pace) di lago. L'artificio si compie nell'autonomia dell'azzurro e del bianco in una indispensabilità tonale che non ha figliolanza altra o corruzione di cromie. Al bianco e al blu Mariangela Calabrese affida il senso ineluttabile di ogni presenza. E dell'asilo.