Le nuvole e il vento
a cura di don Salvatore Rinaldi e Chiara Franchitti
Quante volte, nella fatica quotidiana di educare i giovani a trovare se stessi e il proprio posto nel mondo, si affaccia in noi quel barlume di speranza che sia sufficiente a dar loro un po' di affetto? Ci si sente impotenti e un po' disorientati davanti alla contemporaneità. Eppure è di Gesù, mica il primo che passa, l'invito a imparare a leggere i segni per poter valutare il proprio tempo. Noi non possiamo dimenticare che viviamo un tempo segnato dalla complessità: stare nel mondo (pur senza l'evangelico "appartenervi") chiede intelligenza e capacità di orientamento. Stare nella complessità non significa abitare il mondo come se fossimo perennemente in un luna park dove si va girovagando senza una meta precisa; non vuol dire sentirsi autorizzati all'improvvisazione. «Dio non "educa a casaccio", cioè con interventi educativi saltuari o sconnessi.
L'azione educativa nella storia è sempre 'mirata', anche se non è facile cogliere ogni volta il senso di un singolo intervento. Così dovrà essere anche nell'educazione umana, dove la progettualità non significhi far entrare tutto in uno schema rigido, ma avere il senso del fine e delle mete intermedie, e operare con elasticità ed equilibrio, per tenere o riportare in tensione verso il fine i diversi momenti» Sono parole del cardinal Martini nella sua bellissima lettera sull'educazione. Progettare, quindi. Come capacità di leggere la storia, di intuirne le direzioni. Come sapienza che discerne e senza paura suggerisce delle scelte. Come coraggio di trovare strade e percorrerle. Progettare è far sì che i pensieri precedano le azioni: per essere liberi di costruire relazioni che diano tutta l'attenzione necessaria ai volti e alle persone. Uscire sì, dunque. E fino alle periferie. Ma sapendo perché si cammina, a fare cosa e chi deve fare cosa: l'improvvisazione nel cammino non è il pressapochismo del "tanto prima o poi...", ma è il virtuosismo jazzistico di chi ha tutte le note, i ritmi, le scale musicali "in tasca" per giocarle al momento opportuno. Il mandato si riceve, nemmeno Gesù parte da solo: «Come il Padre ha mandato me, così anch'io mando voi» (Gv 20,21); è elemento fondativo della vita della Chiesa. Chiunque accetti un compito educativo, lo fa sempre a nome della comunità cristiana da cui è scelto e a cui è chiamato ad appartenere. Piace molto affidarsi all'espressione "far sì che i giovani incontrino Gesù": anche questo però rischia di essere uno slogan ed è persino ancora troppo poco, perché non dobbiamo dare per scontato che un incontro – oggi – sia di per sé generativo di altro. Senza una seria lettura dei bisogni, non si incontrano le persone (è un po' come cercare di vendere frigoriferi al polo nord: ci puoi riuscire ma non serve).
Senza un'alleanza sul territorio si diventa autoreferenziali: oggi questo significa essere fuori dal contesto, perché la "società liquida" non è soltanto una bella definizione. Valutare bisogni e risorse significa aprire gli occhi sulla realtà in cui si vive: vale la pena ricordare le parole di Paolo VI che al termine del suo testamento, parlando del rapporto della Chiesa con il mondo, dice: «E circa ciò che più conta, congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio: dovrei dire tante cose, tante. [...] Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo». "Studiare il mondo": un'espressione bellissima perché finalizzata a un rapporto di amore e di servizio; dunque non un interesse di superficie, distaccato o – peggio – strumentale. Quando la lettura della realtà è fatta con cura, la decisione di una strategia di intervento educativo efficace e coerente con gli orientamenti di fondo, è un'illuminazione che viene quasi di conseguenza e risulta più autorevole, più durevole nel tempo. Si vuole partire dall'aggregazione? Dal gioco o dalla festa? Da una proposta di annunzio e preghiera? Anche queste domande sono una provocazione e fanno parte del discernimento: spesso si liquida la questione con il famoso "pizza-incontro" che si risolve poi nella lamentela di chi dice che si vede solo la pizza e non la parte formativa.
Decidere una strategia educativa (e quindi definire con quali mezzi agire con i ragazzi) è molto più che mettere insieme un'attività travestendola con qualcosa di attraente. Decidere le strategie ha molto più a che fare con il decidere la meta definendola bene, consapevoli che il cammino è da sognare quanto da percorrere. Ha a che fare con l'essere creativi, con la possibilità di liberare risorse, valorizzare ricchezza; chiede di definire obiettivi che siano raggiungibili (per questo offrire al primo colpo a un gruppo di adolescenti tre giorni di silenzio agli esercizi spirituali è un po' come chiedere a chi è sempre vissuto in pianura di scalare il monte Bianco...). Di nuovo mette in gioco uno sguardo capace di riconoscere i giovani per quello che sono: non si può parlare di un dodicenne come si parla di un diciassettenne o di un venticinquenne. Tecniche e linguaggi non sono la soluzione ma i codici per poter comunicare. Ancora; tecnica e linguaggi devono intrecciarsi con una competenza educativa: insieme traducono le strategie in contenuti e abilità. Come spesso accade con queste dimensioni, tutto ciò diventa un'arte che non va pensata, almeno in educazione, come un talento innato (altrimenti avrebbero ragione quei preti in fuga dai giovani che dicono: "bisogna esserci portati"): è un'arte che, piuttosto, va appresa e nella quale è necessario esercitarsi. La scelta del metodo è fondamentale: ciò che "parla" ai ragazzi, ciò che veramente li colpisce e li coinvolge non sono tanto i contenuti delle attività, quanto il modo con cui vengono proposte. Per questo possedere tecniche di animazione, utilizzare più linguaggi, significa dare ai contenuti la possibilità di esprimere la loro ricchezza.
Una buona verifica, inoltre, permette di trasformare ciò che funziona in punti di appoggio per le scelte future e gli errori o le fatiche come le cose che fanno crescere, da comprendere per non doverli più "pagare". Andrebbe sottolineato il fatto che una buona verifica (l'andare seminando, intrecciando sapienza e fede) è la valutazione di due aspetti: il prodotto (che valuta se gli obiettivi che ci si era dati sono stati raggiunti) e il processo (che risponde alla domanda su cosa è accaduto strada facendo).
Ma l'educazione e la formazione non sono processi aziendali: quindi, quando è in gioco la vita delle persone, non sempre conta il prodotto (che, tra l'altro, non è così facilmente verificabile), quanto piuttosto il processo: le relazioni, le emozioni, le implicanze interiori e spirituali di attività e percorsi vissuti insieme spesso sono ricchi di aspetti sorprendenti e inattesi.
Bisogna tenere lo sguardo sull'obiettivo finale che è quello di farli vivere, questi ragazzi. Di lanciarli nel mondo e nella vita sicuri che ce la faranno. Perché Dio ha messo dentro di loro le risorse necessarie. Perché il Vangelo di Gesù ci ha parlato della vicinanza di Dio alla vita dell'uomo. Di cui, noi, vogliamo essere piccolo ma prezioso segno.
(Testo è liberamente tratto da un documento scritto da Don Michele Falabretti, responsabile nazionale della Pastorale Giovanile).
©Produzione riservata
Segui la nostra informazione anche su Facebook o unendoti al nostro gruppo WhatsApp e visita il nostro canale Youtube