Le bombe sull'ospedale pediatrico di Kiev: davvero l'inferno è vuoto?
Marina Corradi (Avvenire)
In pochissimi anni ci siamo abituati a tutto. Naufragio di migranti nel Mediterraneo? 40 morti? Poveretti. Gaza incenerita e senz'acqua, e ancora bombardata? Cosa possiamo farci noi, nell'ostinazione di Netanyahu e di Hamas? E, in Ucraina, i massacri ad Azovstal di due anni fa, e le fosse comuni, e gli stupri, e i bambini deportati in Russia? Sconvolti all'inizio della guerra, giorno dopo giorno, tg dopo tg, inavvertitamente non ci siamo forse abituati? In certe parti del mondo la pietà sembra morta, e vincitori e vinti si addossano reciprocamente la responsabilità di orrori che credevamo, in Occidente, appartenere al passato.
Oggi però qualcosa ci ha nuovamente scosso, nel rassegnato impotente nostro allargare le mani. Quell'ospedale di Kiev, l'ospedale dei bambini, centrato da un missile russo, in pieno. Nelle riprese sul web si vede gente che in fila si passa di mano in mano pietre e rottami, per liberare i reparti crollati.
Infermiere e medici piangono davanti alle macerie. Si nota di sfuggita, quasi che per pudore il giornalista spostasse subito l'obiettivo, una giovane donna rannicchiata a terra su se stessa, le mani sulla faccia, in una disperata preghiera. Una madre che non sa che ne sia, del suo bambino.
Nei rifugi sotterranei, dove donne e bambini hanno cercato riparo, un ragazzino calvo per la chemioterapia fissa l'obiettivo, stupefatto. Sembra che, solo, cerchi qualcuno. E le nidiate di piccoli sui letti, raccolti attorno a donne che forse nemmeno sono le loro madri, ma almeno li abbracciano?
In tempi di Intelligenza Artificiale, di tecnologia militare super intelligente, che rozzo errore, per un missile di ultima generazione, piombare con assoluta precisione su un ospedale pediatrico. O non sarà, come dice un medico intervistato davanti alle macerie, un fatto voluto, per disfare ulteriormente il morale del popolo ucraino?
Ore dopo, mentre si scava ancora, bilanci provvisori: si parla di 20 morti, forse di 100 feriti. Sono numeri cui ormai da tempo abbiamo fatto il callo. E però non nelle corsie di una pediatria oncologica, non fra le incubatrici per i prematuri, che senza ossigeno muoiono. A questo, non siamo ancora abituati. E in verità, se pensi agli ufficiali che hanno ordinato quel lancio, ai soldati esecutori, dubiti che degli uomini che sono padri, che hanno dei figli, possano avere premuto quei bottoni con indifferenza. Probabilmente, per ubbidienza. Ordini superiori.
Ma allora c'è un Generale, un capo supremo, che ha dato quell'ordine. Ecco, quell'uomo sconosciuto mi meraviglia. Vorrei vederne la faccia, vedere cosa resta della sua umanità.
Sono decenni che sentiamo ripetere, in una nuova vulgata approssimativamente ispirata al teologo Von Balthasar, che l'Inferno, se c'è, è vuoto. Se penso a quelle stanze in fiamme, ai bambini legati a una flebo o incapaci di muoversi, al disperato loro chiamare la mamma, ammetto che mi vengono dei dubbi. Certo non spetta a noi giudicare. Bisogna essere davvero cattivi però, per programmare e compiere tanto male. L'Inferno è vuoto, come ci sentivamo dire, sfatando antiche, forse addirittura infantili angosce, negli Anni Settanta - quasi che con il 1945 in Occidente la Storia avesse cambiato corso per sempre? Anche questo ottimismo generazionale si incrina oggi nell'urto frontale con le cronache dall'Ucraina, o da Gaza - quelle madri inginocchiate davanti a tanti piccoli fagotti bianchi.