Il terrore delle donne afghane e l’ipocrisia dell’Occidente
di Deborah Ciccone
Dopo "prove tecniche di democrazia" durate 20 anni, i talebani sono rientrati a Kabul.
Avevano preso il potere negli anni 90, per perderlo poi nel 2001 quando, un coalizione di paesi guidati dagli Usa, a seguito dell'11 settembre, rovesciò il regime talebano e si insediò per "combattere e prevenire il terrorismo".
In altre parole, guerra, mascherata dalla tutela dei diritti.
Ritirate le truppe americane, è bastato poco ai talebani per riconquistare il paese.
Si vivono ore difficili , drammatiche, in Afghanistan. E mentre in occidente, si rincorrono parole come responsabilità, fallimenti, vinti, vincitori, a perdere davvero sono le donne afghane.
Poco importa chi abbia fallito, quello che importa è su chi, questo fallimento, sia pesando.
Costrette per anni a nascondersi dietro un burqua , hanno ricominciato da un ventennio a guardare il mondo senza veli e ad essere consapevoli dei loro diritti.
Hanno studiato, lavorato, votato. I loro tacchi hanno fatto rumore, per strada, nelle università.
E se sottolinearlo sembra assurdo, decisamente più assurdo è il fatto che nel 1997, il rumore dei tacchi, venne vietato. Le donne afghane non dovevano fare rumore, non dovevano farsi vedere, non dovevano esistere.
Vietato andare a scuola, lavorare, indossare gioielli e truccarsi, vietato uscire di casa senza un tutore di sesso maschile.
E se nonostante tutti i divieti, nonostante l'inferno in terra, qualcuna trovava la forza di sorridere, veniva punita. Alle donne afghane sorridere, era vietato.
Ora che le promesse dell'occidente sono state disattese e i talebani hanno di nuovo il potere, a togliere il sorriso, dopo anni passati a riconquistare i diritti, è la certezza di averli persi di nuovo.
Oggi, mentre i nuovi padroni dell'Afghanistan, promettono una maggiore emancipazione, nelle città conquistate , uomini armati presidiano scuole e università, già chiuse alle donne, altre sono state allontanate dal luogo di lavoro per non farvi più ritorno.
Di fatto è già in atto una tragica compressione dei diritti e della libertà.
Dunque, non ci rassicurano le promesse dei talebani, non ci tranquillizzano le leggi della sharia, né ci rassicura affatto, l'idea di Draghi di chiedere consiglio all'Arabia Sauditaper fare pressione sui talebani rispetto alla tutela dei diritti. Perché non solo continuiamo ad essere in affari con chi i diritti umani non li rispetta, ma crediamo pure che possa darci consigli sul tema.
Le potenze occidentali che si dicono preoccupate per la condizione femminile, sono le stesse che negli anni 80, hanno finanziato gli estremisti islamici per distruggere la repubblica socialista e laica in Afghanistan.
Intanto, mentre l'ipocrisia occidentale si mostra, oggi come ieri, in tutta la sua "grandezza", perdono le donne che erano riuscite a rivendicare il diritto allo studio e un certo grado di autonomia e indipendenza, quelle che con coraggio stanno protestando sfidando le milizie islamiche, perdono le donne che con la forza che solo la disperazione può dare, in queste ore sollevano le proprie figlie, i propri figli, per farli passare oltre il filo spinato con la speranza che dall'altra parte, il mondo, sia meno crudele e urlando a gran voce "salvate almeno loro".
Sono immagini, quelle che arrivano da Kabul, che tolgono il fiato.
Da questa parte del filo spinato, non si può restare indifferenti.
La tutela di diritti umani non può pesare solo sulle spalle di chi sta vivendo l'inferno.
Abbiamo tutti il dovere di indignarci. Dopo aver fallito a "casa loro" la Nato, l'Europa, l'Occidente, hanno il dovere di intervenire.
È necessario e urgente creare corridoi umanitari per permettere alle ragazze di ieri, di non vivere di nuovo l'orrore e alle loro figlie di non doverlo vivere.
La
società civile ha il dovere di interrogarsi perché se perdono le donne afghane, come ogni volta che perdono i
diritti umani, perdiamo tutti.
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