“Almarina”, di Valeria Parrella
di Francesca Iervolino
"Almarina", penultimo romanzo della scrittrice napoletana Valeria Parrella, racconta la storia di Elisabetta Maiorano, insegnante cinquantenne presso il Carcere minorile di Nisida, isolotto che si specchia nelle acque blu del Mediterraneo. Elisabetta insegna matematica ai giovani ospiti del carcere: non è semplice insegnare a dei ragazzi con un passato difficile e non è il classico mestiere dell'insegnante tipico che tutti immaginano. I ragazzi sono problematici, restii ad aprirsi e perennemente in conflitto con loro stessi e la società. Ma ad Elisabetta il suo ruolo particolare piace e, ogni giorno, varca la soglia dell'imponente costruzione in tufo antico con la consapevolezza che da lei dipende la rinascita dei suoi giovani allievi e il loro reinserimento nel tessuto sociale.
"Sento che finalmente mollerò gli ormeggi da quella vita di usura che mi è capitata. Come ciascuno che entri a Nisida torno libera, torno bambina."
Una mattina qualsiasi, arriva in aula Almarina Luchian sedicenne di origini romene che porta incisi, sulla pelle e nell'anima come un marchio, i segni di un passato terribile. Tra la docente e la giovane si stabilisce immediatamente una sinergia, un'affinità elettiva di anime: per Elisabetta, Almarina rappresenta l'immagine della figlia che non ha mai avuto o voluto; Almarina, invece, considera Elisabetta come una figura materna dolce e accogliente, quella madre che ha perso ormai da tempo. Questo legame che si stabilisce travalica ben presto quello di alunna/insegnante: sono due solitudini che si incontrano, si abbracciano, si illuminano e si donano vicendevolmente conforto.
"Almarina" (nella cinquina del Premio Strega 2020) è un libro intriso di poeticità e di dolore, di speranza, di vuoti e di perdite ma anche e soprattutto di espiazione e rinascita, un inno alla vita. Costantemente riflessivo e fortemente introspettivo, indaga quasi con brutalità sulla società e sul sistema carcerario, analizza la "giustizia" che è non sempre "giusta", si domanda sui suoi tempi lunghi e debilitanti. Sullo sfondo una Napoli estranea, vista da un'altra prospettiva, quella del carcere appunto, che assomiglia più ad un miraggio lontano. Elisabetta ci conduce nella sua vita solitaria e, guardando il proprio passato da un'altra prospettiva, rimescola i ricordi sotto una luce più autentica e cruda. L'insegnante considera i suoi alunni come figli: crede, spera in loro. Non li considera come fiori recisi e destinati ad appassire prima del tempo, al contrario, ognuno di loro rappresenta un seme che, se piantato in un terreno nuovo e più fecondo, può ancora dare frutti meravigliosi.
"io penso sempre che ce la possono fare tutti. Pure quelli che tengono la merda al posto del cervello e vogliono, desiderano morire sparati, quelli che non vedono l'ora di tornare per strada, io penso sempre che ce la possono fare tutti". "La nostra speranza, credo, è che quel giorno, ora lontano, in cui avranno scontato tutta la pena, tornerà loro nelle mani questa chiave, e degli archivi spalancati voleranno fogli bianchi senza più inchiostro sopra, immacolati, come il bucato steso sopra alle terrazze".
Elisabetta, Almarina, i ragazzi e le ragazze del carcere minorile: il loro è un futuro ancora da vivere, una storia tutta da riscrivere, "perché ci vuole un sacco di tempo, o una poesia perfetta, per dire davvero le cose come stanno."
©Produzione riservata
Unisciti al nostro canale Telegram, resta in contatto con noi, clicca qui